Le prime testimonianze cristiane sono di carattere epigrafico e non sono anteriori al
IV secolo. Le origini del cristianesimo a Brescia però, più che sull’autorità di documenti storici, sono legate ad un racconto leggendario scritto tra il X e l’XI secolo. Secondo il suo anonimo autore, le chiese di Milano e di Brescia sarebbero inizialmente state accomunate dall’opera evangelizzatrice dell’apostolo Barnaba, il quale avrebbe consacrato come vescovo delle due città Anatalone, il santo presule che secondo la tradizione sarebbe poi morto a Brescia e sepolto nella chiesa suburbana di San Fiorano ai Ronchi. Ai piedi del colle Cidneo infatti, forse già tra il II e il III secolo, doveva essersi verosimilmente installata una delle primissime comunità cristiane di ascendenza orientale, il cui dinamismo apostolico è attestato al tempo di Filastrio († 392 ca).
Anche l’elenco dei primi santi vescovi, poco più che una serie di nomi senza alcuna precisa indicazione cronologica: Clateo, Viatore, Latino e Apollonio, non appare corredato da significative notizie documentarie. Si tratta tuttavia di una testimonianza preziosa per la continuità del ricordo, tramandato dai dittici liturgici e da un sermone del IX secolo, e per il primigenio collegamento con la sede milanese, che spiega la successiva collocazione del vescovo di Brescia al primo posto alla destra del metropolita nei sinodi provinciali. Debole – benché inserita in un’antichissima tradizione popolare – appare pure la documentazione riguardante i protomartiri, di età adrianea, Faustino e Giovita.
Il primo vescovo di cui si hanno riferimenti sicuri è Ursicino, che partecipò al concilio di Sardica del 343 schierandosi a sostegno dell’ortodossia contro la dottrina ariana. In ogni caso, il territorio diocesano che si andava strutturando sotto la giurisdizione del vescovo di Brescia era destinato a diventare uno dei più vasti dell’Italia settentrionale, quasi 5000 km2, almeno fino al 1784 quando una parte passò alla diocesi di Mantova. Il fatto però che nel 316 Costantino abbia confinato a Brescia Donato e Ceciliano, fautori dello scisma delle chiese africane, induce a credere che la primitiva comunità cristiana non fosse ancora lacerata da pericolose tendenze ereticali. Un rischio reale se prestiamo fede a quanto scriveva il 18 luglio 406 nella commemorazione funebre del vescovo Filastrio, a quattordici anni dalla morte, il suo successore san Gaudenzio.
Filastrio conosceva bene l’Italia padana per aver assistito i cristiani milanesi negli anni difficili di Aussenzio, condannato nel 369, ed averne contrastato la fede ariana. È questo del resto l’ambito in cui entrò in contatto con Ambrogio e, divenuto vescovo di Brescia verso il 380, fu al suo fianco nel sinodo aquileiese (381) e suo ospite a Milano tra il 385 e il 387 quando l’arcivescovo era avversato dall’imperatrice e dal figlio Valentiniano II. Giunto a Brescia, Filastrio aveva trovato una comunità cristianamente tanto incolta quanto desiderosa di formazione religiosa; per questo, come un esperto agricoltore, aveva dissodato il campo del paganesimo per fecondarlo con la parola del vangelo, combattendo «non solo i pagani giudei, ma altresì tutti gli eretici e soprattutto la perfida eresia ariana». Alla sua scuola si erano formati Dominatore, Stefano e Gaudenzio: i primi due chiamati sulla cattedra episcopale bergamasca, il terzo destinato a succedergli su quella bresciana. Di severa formazione teologica, del suo impegno anti-ereticale ci rimane un trattato sulla purezza della fede.
Alla sua morte clero e popolo scelsero Gaudenzio, allora pellegrino in Oriente, il cui governo ebbe probabilmente iniziò verso il 393. In occasione della consacrazione, avvenuta forse l’anno seguente, il presule pronunciò un celebre sermone che, insieme ad altre 20 omelie (o trattati), è l’unica testimonianza sulla sua comunità.
Egli ci presenta l’immagine di una Chiesa povera di martiri, forse a motivo della giovane età, formata da un gruppo ristretto di personaggi eminenti di elevata estrazione sociale e da gente comune, spesso tormentata da molti bisogni. Un particolare disagio dovevano suscitare i numerosi poveri se, nelle parole del vescovo, trova spazio un durissimo richiamo verso quei cristiani ricchi che li ignoravano, come pure verso i loro desideri moralmente inaccettabili e la tolleranza verso il paganesimo che ancora serpeggiava tra i loro contadini, seguito dall’invito a rifuggire «tutti gli abomini dei gentili e ogni forma di idolatria».
Nonostante le difficoltà, grande era lo spirito di comunione che animava questi cristiani, i cui tratti distintivi consistevano nella parola di Dio e «nel segno di Cristo», vale a dire la croce, che li guidava in ogni azione e ne illuminava le case. Legato da stima e ammirazione per Ambrogio, che lo volle più volte a Milano, Gaudenzio ne seguì l’esempio facendo costruire la basilica extraurbana del Concilio dei Santi (identificabile con quella di San Giovanni de foris), dove verso il 400-402 riunì le reliquie di tanti testimoni della fede. Figura di spicco e in relazione con molti esponenti della gerarchia ecclesiastica, nel 406 fece parte dell’ambasceria inviata in Oriente per trattare la reintegrazione di Giovanni Crisostomo nella sede patriarcale di Costantinopoli, al ritorno dalla quale – forse l’anno seguente – probabilmente morì.
Tra IV e V secolo, grazie anche all’opera dei grandi proprietari terrieri e alle sollecitazioni dei loro pastori, il cristianesimo cominciò a penetrare nelle campagne e le tracce della sua diffusione sono attestate dai nuovi edifici di culto. Buona parte delle chiese paleocristiane, anche se è modesto il numero di quelle rimasteci, sorse sul sito di ville romane e il loro uso continuò anche oltre il medioevo: dapprima come chiese battesimali, poi come pievi e quindi come parrocchie. Gli esempi delle cattedrali cittadine o delle chiese di Bedizzole, Manerba, Nave, Inzino, Iseo, Palazzolo, Corticelle e Ghedi sono tra quelli meglio indagati. Sulla strada per Cremona invece, nel suburbio meridionale, era situato il cimitero cristiano di San Latino dove la tradizione vuole che siano stati martirizzati i santi Faustino e Giovita, la cui morte fu occasione per la costruzione della chiesa di San Faustino ad sanguinem (oggi Sant’Angela Merici) già esistente nel VI secolo. Ad arricchire la città e i suoi dintorni, tra V e VI secolo, contribuirono anche l’edificazione di San Fiorano sui Ronchi, di Santa Maria ad silvas nel suburbio occidentale, di Sant’Eusebio sulle colline a nord di Brescia e, un po’ più tardi, di Santo Stefano in Arce. La povertà di queste attestazioni non dipende però dalla scarsità delle strutture antiche o altomedievali, quanto dal fatto che la maggior parte degli edifici di culto anteriori al Mille ha avuto sovente un’ininterrotta continuità di vita e ha subito trasformazioni tali che hanno cancellato le fasi più antiche.
Durante la dominazione gota si ebbe la creazione di centri di culto ariani a fianco di quelli cattolici, circostanza che non modificò tuttavia la situazione dei territori rurali controllati dal clero cattolico. Anche la guerra greco-gotica non interruppe il processo di evangelizzazione delle campagne, mentre la comparsa dei longobardi rappresentò un momento traumatico e di rottura, ben documentato dalle cronache e dai resti materiali (come gli scavi in San Salvatore di Brescia). Allo stesso periodo risalgono pure le prime forme eremitiche nelle grotte dell’alto Garda da parte di chierici orientali, la cui esperienza venne istituzionalizzata da sant’Ercolano che vi trovò riparo all’arrivo degli invasori.
Lo scisma dei “Tre capitoli” coinvolse anche il vescovo di Brescia, ma – superata la crisi– il recupero dell’ortodossia si tramutò in fervore religioso e il ripristino dei valori romani si concretizzò altresì nel compito, affidato da Gregorio II al monaco bresciano Petronace, di restaurare Montecassino.
La conversione longobarda fu lentissima e si completò solo al tempo di Liutprando. Molte chiese allora vennero restaurate e, secondo Paolo Diacono, cospicue «donazioni furono fatte ai luoghi sacri» che, in diocesi di Brescia, trovano riscontro nelle chiese di Bagnolo Mella, di Rogno in Valcamonica e di Gussago, ma anche in quelle di Santo Stefano a Cividate Camuno, di Santa Eufemia a Nigoline, di San Bartolomeo a Bornato, di San Giovanni a Leno e di San Lorenzo a Manerbio. Questi edifici di culto, per quel poco che si sa, erano talvolta di dimensioni cospicue, superiori persino a molte chiese romaniche edificate in seguito nelle campagne, come nei casi di Bedizzole, di Nave o di Palazzolo dove sono stati individuati edifici a pianta rettangolare larghi fino a 20 m e lunghi da 20 a 35 m. Un aspetto del tutto originale, anche per la storia successiva, fu la fondazione dei monasteri femminile e maschile di San Salvatore (poi Santa Giulia) di Brescia (753 ca) e di San Benedetto di Leno (758), da parte dei sovrani longobardi Desiderio e della moglie Ansa. Tali cenobi contribuirono a diffondere nel mondo dei rustici il messaggio evangelico, mentre nei loro immensi possedimenti lo sfruttamento della terra divenne veicolo di sviluppo agrario, economico e sociale. Con l’avvento dei franchi i due centri religiosi continuarono ad essere un modello di vita ascetica secondo la regola di san Benedetto, ma furono pure il fulcro di un’intensa attività culturale, della circolazione di codici e di una viva fraternità di preghiera collegata con le grandi abbazie europee.
Anche l’episcopato entrò presto nell’orbita carolingia – i suoi presuli ricopriranno alte cariche fino all’XI secolo – e il vescovo Ramperto (824-844ca) appare come la figura più significativa. A lui si deve il rilancio della funzione vescovile, l’impegno per la ripartizione della diocesi in pievi e la cura pastorale delle campagne, sempre in stretto contatto con l’arcivescovo di Milano; a lui è inoltre riconducibile l’edificazione della cripta nella cattedrale di Santa Maria (ora Duomo Vecchio o Rotonda), dove trasferì il corpo di san Filastrio, e il rinnovo della vita monastica con l’erezione di San Faustino Maggiore «nel luogo dove riposavano i corpi dei santi martiri Faustino e Giovita». Il cenobio, alla guida del quale vennero chiamati i monaci franchi Leodegario e Ildemaro – oltre che centro religioso – divenne un vivace luogo di cultura, di relazioni internazionali e di studio dei classici, con un attivo scriptorium.
Di origini germaniche e sostenitore della politica imperiale, il successore Notingo fu in contatto con le maggiori personalità del tempo, continuò a vigilare sulla disciplina del clero e favorì la crescita delle istituzioni monastiche. Alla sua morte († 858 ca) gli subentrò Antonio (859-901), uomo di grande pietà e di impegno apostolico, che nel corso del suo episcopato vide venir meno il prestigio della sede vescovile e assistette impotente alle lotte tra i grandi feudatari, le cui pesanti ripercussioni si fecero sentire anche sulle istituzioni ecclesiastiche, giungendo persino a lambire la quiete del cenobio femminile di San Salvatore. Il particolarismo del secolo X, tuttavia, non riuscì ad incrinare il funzionamento delle pievi che, in molti casi, si posero come un valido baluardo alla crisi delle istituzioni maggiori grazie alla capillarità della loro diffusione, all’impegno dei chierici e alla carità assicurata dalla fitta rete di xenodochia.
L’alternanza dei gruppi di potere per il controllo della corona italica si avvertì anche a Brescia, dove il vescovo Ardingo (901-922ca), esponente dei Supponidi – la potente famiglia a cui riuscirà di mettere le mani sull’episcopato per buona parte del secolo –, sostenne la politica di Berengario, mentre Antonio II, Goffredo e Adalberto si mossero in favore del governo degli Ottoni. All’inizio dell’XI secolo gli equilibri mutarono e sulla cattedra vescovile venne eletto Landolfo II (1002 ca.-1030), autorevole rampollo dei capitanei de Arzago e fratello dell’arcivescovo di Milano, che operò per il rafforzamento della sua autorità ed il ripristino della vita comune del clero, fece costruire il palazzo vescovile, trasferì le reliquie di Sant’Apollonio nella cattedrale di San Pietro de Dom e fondò il cenobio maschile extraurbano di Sant’Eufemia della fonte.
Nella stessa direzione – promozione di canoniche e cenobi – si mosse il vescovo Olderico (1031-1054); a lui di deve l’erezione del monastero di San Pietro in Monte a Serle (1043), come pure il primo confronto con i liberi homines della città, la cui nuova condizione venne riconosciuta da Corrado II (1037). Il suo successore, Adelmanno (1055-1061), già vescovo di Liegi e probabile ricostruttore in forme romaniche dell’antica cattedrale di Santa Maria, fu tra i maggiori fautori della riforma della Chiesa. Partecipò infatti ai sinodi romani del 1059 e del 1060, ma il tentativo di far rispettare i decreti riguardanti simoniaci e concubinari si infranse contro l’opposizione dei canonici della cattedrale, che giunsero a ferirlo gravemente. La sua morte, pochi mesi dopo, suscitò una forte reazione popolare che portò alla formazione del movimento patarino, fermento del rinnovamento ecclesiastico, ma anche al consolidarsi dello schieramento “anti-gregoriano” e “filo-imperiale” che per alcuni decenni riuscì a controllare la sede episcopale.
Negli anni cruciali della lotta per le investiture si colloca il governo di Arimanno (1087-1116 ca), cardinale dei Santi Quattro Coronati, a cui si collega la fondazione vallombrosana di San Gervasio al Mella ed il sostegno ai numerosi priorati cluniacensi, imperniati soprattutto intorno a San Nicolò di Rodengo. Sono inoltre questi i decenni, caratterizzati dai controversi episcopati di Villano (1116-1132) e Manfredo (1132-1153), nei quali il movimento popolare di riforma fu pervaso dalla generale diffusione dell’eremitismo e da forme di spontaneo associazionismo religioso, insieme all’aperta polemica di Arnaldo da Brescia († 1155) contro la corruzione clericale.
Il rafforzamento vescovile, nella figura dei presuli Raimondo (1153-1173), Giovanni da Fiumicello (1174-1195), Giovanni da Palazzo (1195-1212) e Alberto da Reggio (1213-1227), si realizzò sia in ambito politico – contrastando la politica del Barbarossa e inserendosi nella dialettica comunale –, sia in campo giurisdizionale ed ecclesiastico limitando l’esenzione monastica e vigilando sui costumi del clero, sia nel riordino dei benefici canonicali, nella tutela del patrimonio (diritti, decime, rendite, ecc.), nella repressione dell’eresia e nella difesa della libertas della Chiesa. Rilevante fu poi l’impegno per la pacificazione delle fazioni, per il rilancio pastorale e religioso – grazie soprattutto all’azione dei nuovi ordini: francescani, domenicani, umiliati, agostiniani – e per contrastare le ingerenze esterne dovute alla politica imperiale di Federico II, all’espansionismo di signori locali e all’arrivo degli angioini, come mostrano gli episcopati di Guala da Bergamo († 1244ca), Azzone da Torbiato († 1253), Cavalcano de Salis († 1263) e Martino da Gavardo († 1275).
Particolarmente rilevante fu l’opera di Berardo Maggi, eletto vescovo nel 1275, che nel 1298 divenne signore della città mantenendo tale incarico politico fino alla morte (1308), il quale si adoperò per il sistematico riordino del patrimonio vescovile, il rafforzamento delle prerogative episcopali, il rinnovo delle comunità monastiche e il sostegno agli eremitani. Alla sua morte si aprì un lungo periodo di crisi per la sede vescovile che per gran parte del secolo fu guidata da forestieri, spesso assenti, i quali si avvalsero di vicari e furono poco incisivi di fronte ai molti problemi causati da guerre, carestie e pestilenze periodiche. Dinamica appare invece l’azione caritativa promossa dalle confraternite laicali, il cui impegno si espresse nell’assistenza ai più bisognosi (pellegrini, orfani, vedove, infermi, carcerati) e nella gestione di hospitalia, dalla cui unione nel secolo successivo si giunse alla creazione dell’Ospedale Maggiore e all’avvio dei Monti di Pietà.
Il dominio di Venezia (1426-1797) diede inizio ad una nuova stagione caratterizzata da una certa omogeneità per la storia della Chiesa bresciana. Ciò appare nella politica ecclesiastica della Dominante, nella nomina di vescovi provenienti quasi sempre dal patriziato veneto e nel rinnovato fervore edilizio che interessò chiese ed oratori. Si alternarono così figure di notevole levatura intellettuale e morale (come Pietro del Monte, † 1457, o Domenico de’ Dominici, † 1478), a figure dallo stile di vita simile a quello dei nobili del tempo. Segnali diversi si ebbero invece con l’affermarsi del movimento dell’osservanza che portò al rinnovamento di antichi cenobi, come l’abbazia di Santa Giulia, e all’introduzione di olivetani e celestini, ma anche al rifiorire della presenza francescana, domenicana, agostiniana, carmelitana e servita. Del tutto innovativa fu invece l’intuizione di sant’Angela Merici (1474-1540) la cui Compagnia delle Dimesse di sant’Orsola, chiamate popolarmente Orsoline, fu il primo istituto di vita consacrata non claustrale riconosciuto dalla Chiesa (1544).
Le iniziative per un rinnovamento religioso furono presto avvertite anche dall’episcopato che, nella persona di Durante Duranti (1551-1558) e Domenico Bollani (1559-1579), fece proprie tali istanze avviando la ricezione delle disposizioni tridentine e la formazione dei chierici con la costruzione del seminario (1568). L’incisiva azione di disciplinamento popolare – non senza attriti con Venezia – ebbe il suo snodo fondamentale nella visita apostolica dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo alla diocesi nel 1580. Le strutture ecclesiastiche così rinvigorite seppero fronteggiare le infiltrazioni protestanti e le tendenze quietistiche dei “pelagini” della Valcamonica, grazie anche alla migliorata istruzione del clero – i cui esiti fecondi si avvertirono nella crescita della pietà popolare –, alla diffusione della stampa, all’impegno confraternale e alla testimonianza di laici come Alessandro Luzzago († 1602). Tale vigorosa ripresa, tra i primi decenni del XVII e la seconda metà del XVIII secolo, si concretizzò in un grande rinnovamento edilizio, specie delle sedi parrocchiali e dei santuari, che coinvolse l’intera diocesi con rilevanti esiti architettonici.
Alle difficoltà politico-sociali del Seicento, nel corso del quale tuttavia non mancò lo sforzo per portare a compimento lo spirito conciliare, assicurato dal diffondersi di gesuiti, somaschi e teatini, continuò nel secolo successivo l’opera di elevazione culturale e religiosa del clero e del popolo. Ciò fu reso possibile dallo zelo di pastori come il benedettino Angelo Maria Querini (1725-1755), attento alle esigenze dei fedeli, che diede impulso all’edificazione di chiese, alla nuova cattedrale e dotò la città di una ricca biblioteca ancora esistente, che reca il suo nome. In questo fertile ambiente culturale, negli ultimi anni della dominazione veneta, si manifestarono correnti religiose ed intellettuali vicine alle posizioni gianseniste (Pietro Tamburini), a cui solo a fatica fecero fronte i vescovi Molin (1755-1773) e Nani (1773-1804), mentre la diocesi veniva travolta dalla bufera rivoluzionaria (1797).
Allo scempio di coscienze, di arredi sacri, libri e tesori ecclesiastici pose un primo rimedio Gabrio Maria Nava (1807-1831), a cui si deve la ripresa del seminario, dell’edilizia per il culto, dell’attività educativa e caritativa. È questa del resto la stagione nella quale – forse anche in risposta alle soppressioni napoleoniche – la Chiesa bresciana vide un’intensa fioritura della vita consacrata, soprattutto femminile, con la nascita di congregazioni dedite all’educazione e all’assistenza; i nomi di Lodovico Pavoni, di Annunciata Cocchetti, di Maria Crocifissa Di Rosa, di Bartolomea Capitanio, di Vincenza Gerosa, di Teresa Eustochio Verzeri o di Elisabetta e Maddalena Girelli, esprimono bene la pluralità delle numerose iniziative. Tempi nei quali i sentimenti risorgimentali coinvolsero nell’agone politico anche molti esponenti del clero, senza tuttavia dimenticare l’apertura dello slancio missionario (Daniele Comboni).
Dopo l’unità, il rafforzarsi dell’impegno sociale dei cattolici trovò a Brescia un terreno particolarmente fecondo, grazie all’impegno di laici ed ecclesiastici di altissima levatura (Giuseppe Tovini, Pietro Capretti, Giorgio Montini, Luigi Bazoli, Giovanni Piamarta, Arcangelo Tadini, Giovanni Bonsignori e Angelo Zammarchi, solo per citarne alcuni), che seppero dar vita a opere per l’educazione, la formazione al lavoro dei giovani, l’editoria, la stampa e il mutuo soccorso, appoggiate dalle gerarchie ecclesiastiche.
I lunghi episcopati di Verzeri (1850-1883) e Corna Pellegrini (1883-1913) consolidarono le istituzioni parrocchiali e gli oratori, sostennero l’Azione Cattolica e l’impegno dei cattolici nel sociale in risposta ai problemi dell’industrializzazione e dell’abbandono delle campagne. L’alto magistero di mons. Gaggia (1913-1933) si esplicitò nei dolorosi anni della grande guerra e mostrò grande fermezza nei confronti del governo fascista.
La fine del regime, la durezza del secondo conflitto mondiale, la lotta partigiana e il dinamismo della ricostruzione post-bellica impegnarono la Chiesa bresciana, sotto la guida attenta di Giacinto Tredici (1933-1964), nel campo della carità, della devozione popolare, della cultura, dell’editoria e dell’edilizia sacra con la costruzione di chiese e del nuovo seminario. Ancora una volta clero e laicato – grazie alla carismatica personalità di figure come Giuseppe Almici, Ottorino Marcolini e Vittorino Chizzolini – seppero interpretare con originalità le molte sollecitazioni trasformandole in iniziative religiosamente ispirate di rilevante valore sociale ed economico nei campi editoriale, edilizio, assistenziale, bancario, assicurativo, giornalistico, turistico, culturale, della cooperazione e del volontariato.
Nel 1963 il bresciano Giovanni Battista Montini (1897-1978), arcivescovo di Milano, veniva eletto papa con il nome di Paolo VI; al nuovo pontefice, originario di Concesio, spettava il delicato compito di portare a compimento il Concilio Vaticano II e di orientare la Chiesa nei tempi nuovi oltre la modernità. I successivi episcopati di Luigi Morstabilini (1964-1983), Bruno Foresti (1983-1998), Giulio Sanguineti (1999-2007) e Luciano Monari (2007-) hanno così promosso l’applicazione graduale delle disposizioni conciliari, interpretandone lo spirito alla luce dei mutamenti sociali, mentre i fenomeni della secolarizzazione, del confronto con le nuove culture, della povertà e della globalizzazione vanno stimolando una riflessione più profonda sul senso della fede e della tradizione cristiana. Un percorso, dagli esiti non scontati tuttora in atto, che appare animato da una vivacità creativa nelle forme di apostolato, dal faticoso sperimentalismo delle unità pastorali e da un graduale recupero di attenzione e sensibilità verso i temi legati alla religiosità.
Il territorio della diocesi di Brescia è di 4538 km2 e non coincide con quello della provincia; la popolazione è costituita da circa 1.136.000 abitanti, mentre altri 210.000 sono posti nelle vicine province di Bergamo, Sondrio e Verona. Le parrocchie sono 473, distribuite in 32 zone pastorali (o vicariati zonali), con quasi 900 sacerdoti, 251 religiosi (residenti in diocesi in 39 comunità) e 1780 religiose (in 209 comunità, delle quali 7 di clausura con oltre 100 monache); assai numerosi sono gli istituti secolari, le associazioni e i movimenti laicali, come pure l’elenco di santi (44) e beati (12) ricordati nella liturgia locale.
Orientamento bibliografico. Per la storia della Chiesa bresciana gli strumenti di riferimento fondamentali sono offerti dalla Storia di Brescia, 4 voll., Brescia 1961-1964 e dal volume Diocesi di Brescia, a cura di A. Caprioli - A. Rimoldi - L. Vaccaro, Brescia - Gazzada 1992 (Storia religiosa della Lombardia, 3), a cui vanno aggiunti i saggi pubblicati sin dal 1910 sul periodico «Brixia sacra» (ora Brixia sacra. Memorie storiche della diocesi di Brescia, corredato da una rassegna bibliografica e disponibile in questo sito), le voci della Enciclopedia Bresciana di A. Fappani, 23 voll., Brescia 1973-2007 e, almeno, A. Fappani -
F. Trovati, I vescovi di Brescia, Brescia 1982; M. Bettelli Bergamaschi, Gaudenzio e Ramperto, vescovi bresciani, Milano 2003 (Studi di Storia del Cristianesimo e delle Chiese cristiane, V); G. Archetti, Berardo Maggi vescovo e signore di Brescia. Studi sulle istituzioni ecclesiastiche e sociali della Lombardia orientale tra XIII e XIV secolo, Brescia 1994 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 2); D. Montanari, Disciplinamento in terra veneta: la diocesi di Brescia nella seconda metà del XVI secolo, Bologna 1987 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico. Monografie, 8); A servizio del Vangelo. Il cammino storico dell’evangelizzazione a Brescia, 1. L’età antica e medievale, a cura di G. Andenna, Brescia 2010; 2. L’età moderna, a cura di X. Toscani, Brescia 2007; 3. L’età contemporanea, a cura di M. Taccolini, Brescia 2005.
Un’attenzione particolare riveste invece l’edizione di fonti monastiche (S. Pietro in Monte di Serle, S. Benedetto di Leno, S. Giulia di Brescia, Ss. Cosma e Damiano di Brescia, S. Nicolò di Rodengo, ecc.) ed ecclesiastiche, sia in relazione alla documentazione economica della Mensa vescovile, sia delle visite pastorali (come la grande visita apostolica di s. Carlo Borromeo del 1580). Merita inoltre di essere segnalata l’operosità dell’Istituto Paolo VI di Brescia, dell’Istituto di cultura “G. de Luca” per la storia del prete e del Ce.Doc (Centro di documentazione) per l’attività di ricerca e le iniziative editoriali relative a Giovanni Battista Montini - Paolo VI, al clero diocesano e al movimento cattolico bresciano.
Gabriele Archetti